Il Fondatore e gli uchideshi (allievi interni) dell’Hombu dojo: Yutaka Kurita, Kenji Shimizu, Mitsugi Saotome, Mitsunari Kanai, Akira Tohei, Kisshomaru Ueshiba, Shuji Maruyama, e Nobuyuki Watanabe (1964)

Tradizionalmente alle pieghe dell’hakama vengono attribuiti sette precetti, che trovano origini dalle sette virtù confuciane, e che sono propri della Via del guerriero: il bushido.

Grande influenza ha avuto il pensiero del Confucianesimo sulla cultura tradizionale giapponese.
“Esse simbolizzano le sette virtù del budo — disse il fondatore dell’Aikido O Sensei Ueshiba Morihei — troviamo tutte queste qualità nel samurai del passato. L’hakama ci induce a riflettere sulla natura del vero bushido. Indossarla simbolizza le tradizioni che ci sono state tramandate di generazione in generazione. L’Aikido è nato dallo spirito bushido del Giappone, e nel praticarlo dobbiamo cercare di rifletterne le sette virtù tradizionali”.
(tratto da uno scritto di Mitsugi Saotome reperito su Aikido Italia Network).

 

Il seguente articolo è tratto dal libro “I principi dell’Aikido” di Mitsugi Saotome e narra come O’Sensei non ammettesse neppure l’idea che l’Aikido si potesse praticare senza hakama. Oggi praticare senza hakama non solo non va più contro il Reishiki, ma l’Aikikai Foundation e le organizzazioni collegate proibiscono l’uso dell’hakama agli allievi di grado inferiore allo shodan. Come dice Saotome nello scritto che segue, “Il suo significato [dell’hakama, NdR] è degenerato da simbolo di virtù tradizionali a quello di status symbol dello yudansha”

di MITSUGI SAOTOME

Quando ero uchideshi (allievo interno al Dojo) con O Sensei, ognuno di noi doveva indossare l’hakama per la pratica fin dal primo istante in cui ci si presentava sul tatami.
Non esistevano regole circa il tipo di hakama da indossare, per cui il dojo era un luogo piuttosto variopinto. Si vedevano hakama di ogni genere, di tutti i colori e qualità, dall’hakama da kendo all’hakama a strisce usato nella danza giapponese, dai costosi hakama di seta chiamati sendai-hira. Scommetto che qualche principiante le abbia buscate per aver preso in prestito il prezioso hakama del nonno, destinato ad essere indossato solo nelle grandi occasioni, per poi logorarne le ginocchia praticando il suwariwaza (tecniche in ginocchio).
Ricordo come fosse oggi il giorno in cui dimenticai la mia hakama. Stavo per presentarmi sul tatami per fare pratica indossando solo il mio dogi, quando O Sensei mi fermò.
“Dov’è il tuo hakama?” mi domandò severo. “Credi forse di poter fare lezione con il tuo istruttore indossando solo la biancheria intima? Non hai il senso della decenza? Evidentemente ti mancano l’attitudine e l’etichetta necessarie per uno che intende seguire il budo. Vai a sederti e sta a guardare gli altri!”
Questo fu solo il primo dei numerosi rimproveri che ricevetti da O Sensei. Tuttavia, la mia ignoranza in quell’occasione stimolò O Sensei a tenere una lezione supplementare ai suoi uchi-deshi, al termine di quella regolare sul significato dell’hakama. Egli ci spiegò che l’hakama era il costume tradizionale degli studenti di Kobudo e ci chiese se conoscevamo la ragione delle sette pieghe dell’hakama.
Esse simbolizzano le sette virtù del budo — disse O Sensei — che sono: jin (benevolenza), gi (onore o giustizia), rei (cortesia ed etichetta), chi (saggezza, intelligenza), shin (sincerità), chu (lealtà), e koh (pietà). Troviamo tutte queste qualità nel samurai del passato. L’hakama ci induce a riflettere sulla natura del vero bushido. Indossarlo simbolizza le tradizioni che ci sono state tramandate di generazione in generazione. L’Aikido è nato dallo spirito bushido del Giappone, e nel praticarlo dobbiamo cercare di rifletterne le sette virtù tradizionali”.
Oggi, molti dojo di Aikido non osservano strettamente la regola di O Sensei circa l’uso dell’hakama. Il suo significato è degenerato da simbolo di virtù tradizionali a quello di status symbol dello yudansha (graduati dan). Ho visitato i dojo di molte nazioni. In molti di quelli in cui soltanto gli yudansha indossano l’hakama, gli yudansha hanno perduto la loro umiltà.
Essi considerano l’ hakama come un premio da esibire, come il simbolo esteriore della loro superiorità. Questo atteggiamento rende l’inchino verso O Sensei, con cui iniziamo e terminiamo ogni lezione, una presa in giro della sua memoria e della sua arte.
Peggio ancora, in alcuni dojo le donne di grado kyu (e solo le donne) sono tenute ad indossare l’hakama, si presume per preservare la loro modestia. Per me questo è un insulto e una discriminazione nei confronti delle donne aikidoka. Ed è altrettanto offensivo per gli aikidoka maschi, in quanto presume da parte loro una ristrettezza mentale che non è ammessa sul tatami dell’Aikido.
Vedere l’hakama trattato con un criterio così meschino mi rattrista. Ad alcuni potrà sembrare una discussione futile, ma io ricordo benissimo l’importanza che O Sensei attribuiva a questo indumento, e nessuno, credo, può mettere in discussione il grande valore delle virtù che esso simboleggia. Nel mio dojo e nelle scuole che vi sono associate incoraggio tutti gli studenti ad indossare l’hakama, indipendentemente dal loro livello o grado. (Non lo richiedo fin quando non abbiano acquisito almeno il primo grado, anche perché negli Stati Uniti è difficile che i principianti abbiano un nonno giapponese dal quale farsi prestare l’hakama).
Sono convinto che indossare l’hakama e conoscerne il significato aiuti gli studenti a sentire lo spirito di O Sensei e mantenerne viva la visione.
Se permetteremo che si affievolisca l’importanza dell’hakama, probabilmente sarà l’inizio della dimenticanza delle cose fondamentali dello spirito dell’Aikido. Se al contrario resteremo fedeli alle intenzioni di O Sensei circa i nostri indumenti da allenamento, anche i nostri spiriti saranno più coerenti con il sogno a cui egli dedicò la propria vita.
Mitsugi Saotome “I principi dell’Aikido”
Ed. Mediterranee

Le sette pieghe dell’hakama.

Gi: Onestà e giustizia.
Sii scrupolosamento onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Yu: eroico coraggio.
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.
Jin: compassione.
L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. E’ diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune, possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.
Rei: gentile cortesia.
I samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.
Makoto o anche Shin: completa sincerità.
Quando un samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno nè e di “dare la parola” nè di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.
Meiyo: onore.
Vi è un solo giudice dell’onore del samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà, non puoi nasconderti da te stesso.
Chugi: dovere e lealtà.
Per il samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventare proprietario. Egli ne assume piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.
Chiaramente quanto sopra deve essere necessariamente contestualizzato e rapportato alla contemporaneità del nostro tempo presente e all’essere umano moderno, che dovrebbe essere sempre alla ricerca di una migliore conoscenza di se stesso al fine di essere sempre più utile al benessere degli altri, un donarsi in modo totale ed incondizionato, seguendo l’ideale più alto del principio della mutua prosperità.
Alcuni passaggi vanno letti con un respiro estremamente ampio ed alcuni concetti espressi necessitano di una conoscenza approfondita del contesto storico in cui gli stessi sono stati espressi.
Elici Santo.